In un volume quasi privo di dialoghi e di discorso diretto, Olivier Guez, nel suo “La scomparsa di Josef Mengele,” edito in Italia da Neri Pozza, ci lascia in una sospensione continua raccontandoci il romanzo della vita del medico e ufficiale nazista delle SS, ai più tristemente noto come il Todesengel, l’angelo cioè della morte del campo di sterminio di Auschwitz.
L’autore non vuole inserirsi nel solco della già collaudata narrazione delle crudeltà commesse dal giovane aguzzino che trattava gli Ebrei o, in genere, le sue vittime come larve, microbi o cavie umane (se lo fa, è solo per alcuni rimandi, pur ben dettagliati in quanto a crudeltà e spietatezza); Guez vuole parlare di altro.
L’autore sembra, quasi, volerci dire quanto succede a un uomo dedicatosi al male dopo aver compiuto il male; e comincia proprio dagli istanti immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale: i momenti in cui Mengele passa subito dall’apice di una carriera promettente a misera condizione di chi non può più neppure usare il proprio vero nome, ma deve diventare il falso Helmut Gregor, per poi passare a Peter Hochblicher ed essere sepolto, dopo un periodo di isolamento e malattia, come Wolgang Gehrard, nel 1979 all’età di 68 anni.
Il romanzo/saggio di Guez parla, dunque, del male il quale fa male a se stesso. Se la crudeltà impietosa non ha bisogno di essere brutta, sciatta e malandata, ma a volte è in giacca e cravatta (oppure, come nel nostro caso, dietro un immacolato camice da medico ricercatore) essa, la crudeltà, lo diventa una volta scoperta, o per meglio dire ancora nascosta, come nel caso di Mengele, per evitare di essere riconosciuta.
Mengele, dopo rocambolesche fughe dall’Alto Adige all’Argentina, per poi passare al Paraguay e al Brasile (comprandosi l’anonimato con i soldi di famiglia pietiti dai parenti che lo proteggono), fa sì che noi ci chiediamo che senso abbia vivere come uno sconfitto reietto per poter vantare brevi istanti di gloria vissuti a compiere il male; come il mafioso, del resto, arricchitosi oltre qualsiasi misura comprensibile, ma che si condanna a vivere come un topo di fogna in un tugurio maleodorante sottoterra.
Ma Mengele/Gregor/Hochblicher è altro ancora: egli è il male diabolico, perseverante e caparbio che non vuole saperne di pentirsi. In un dialogo disperato con il proprio figlio Rolf: “Papà, cosa hai fatto ad Auschwitz?”, Josef, oltre al solito disco rotto: “Abbiamo obbedito agli ordini!”, si esalta in un panegirico misticoide e delirante. Esso è all’insegna del nazismo che sarebbe stato un evento più grande della capacità di comprensione della presente generazione degli anni ’70, dandoci un’idea con questo scontro verbale padre-figlio della crisi di coscienza del popolo tedesco post-nazista, ignaro in quegli anni, ancora e fino in fondo, delle colpe dei propri antenati, ma purtroppo destinato per molti versi a odiare i criminali di allora nelle cui vene scorreva lo stesso sangue.
Buona lettura