L'interesse per la storia (va pure detto per iniziare questo contributo) non appartiene a tutti: vi sono molti che alla storia non si interessano affatto nel ritenere la disciplina noiosa, superata, o vecchia per dirlo in una parola definitiva e brutale, e in definitiva fatta di una sequenza di date da memorizzare, spesso legate a eventi bellici o alberi genealogici. E anzi il criterio di giudizio in molti sembra quello di dire: “Tanto meno ne so, tanto meno mi rifaccio al passato a favore del moderno e del futuro, tanto meglio starò.”
A giudizio di chi scrive, e a quello di tutti coloro cui invece la storia interessa (e vi assicuro siamo in tanti), uno degli aspetti che maggiormente spinge allo studio di essa e di tutto quanto attraversa l'indagine storiografica è senz’altro quello di ricostruire i fatti per capirli, individuare gli errori e gli orrori per evitarne il ripetersi o, ancora, per studiare gli esempi e gli accadimenti (sono un po’ banale, me ne rendo conto: scusate) buoni per prenderli a modello.
Ma vi è un aspetto che tormenta chi scrive qui e so di interpretare molti di coloro che si affaticano allo studio di essa, e cioè che della storia non sopravvivono aspetti che senz’altro sconfinano nel curioso e nel non tecnicamente necessario, ma a prescindere da ciò animano la mente del cultore della materia.
Voglio spiegarmi meglio: quanti di noi, noi che amiamo la storia ci siamo più di una volta detti: “Ah, come avrei voluto essere lì in quel momento!” riferendoci a quello che non è possibile sapere nei dettagli e nelle pieghe più recondite di un fatto accaduto; ovverossia una conversazione burrascosa fra due personaggi del passato: tanto per fare un esempio, il colloquio fra Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini il 25 luglio quando il Re licenzia il Duce, dittatore, dall’incarico ancora in vigore in teoria di Presidente del consiglio dei Ministri e lo fa arrestare; oppure chi non darebbe di tutto pur di assistere a Waterloo a quanto sta avvenendo nella testa di Napoleone nell’attesa vana delle truppe di Grouchy il quale sta tenendo a bada lontano dalla battaglia principale i prussiani? L’Imperatore chiede ai propri marescialli inetti che lo circondano: “Ma dov'è Grouchy?! Lo voglio qui ora! Ho bisogno di quei soldati!” E lo stesso Grouchy? Cosa avrà pensato quando ha saputo di essere stato senza volerlo decisivo per le sorti della guerra? Ma questo non è dato sapere in quanto nei libri di storia non c’è.
Al Rubicone Svetonio fa dire a Cesare: “Alea est iacta,” perfetto passivo tradotto nella vulgata: “Il dado è tratto,” ma Plutarco riporta: “’Ανερίφθω ό κύβος!” che è un imperativo: “Sia tratto il dato.” Era un ordine o una considerazione? Oppure, il caro Giulio non lo ha detto affatto, e se lo sono inventati Svetonio e Plutarco, dipendendo da una fonte comune che a propria volta, la frase, se l’è inventata per creare suspense, in quanto l’autore di essa lo ha sentito dire da uno che era il fratello del cognato dello zio ecc. ecc. che di cattiva voglia aveva seguito i cesariani fino a quel momento ed era interessato solo al soldo del proprio generale?
Queste sono le domande cui purtroppo l’indagine storiografica non ci può dare risposta alcuna; e allora chi ci può dare quello che noi desideriamo e sanare così la curiosità insaziabile che è pur lecita anche se non essenziale all’interpretazione (ma forse no…) dei fatti.
La risposta, forse, giace nella fictio letteraria: e a ben osservare è non più compito dello storico di professione, ma del poeta o dello scrittore in genere quello di fornire le risposte alle nostre domande; e qui dobbiamo ricorrere all’uomo che più di tutti è stato in grado di operare letterariamente in tal senso, e (lo avrete capito tutti!) mi riferisco ad Alessandro Manzoni e alla sua teoria del verosimile nel romanzo i Promessi Sposi, tanto ben espresso in una sola frase quando raccontando del Vicario di Provvisione rintanato in soffitta mentre la folla rabbiosa dà assalto alla sua dimora, chiosa: “Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza.”
La magia che è frutto della creazione artistica sazia questa domanda fondamentale, e se non è possibile scientificamente dimostrare i dettagli per esempio di una conversazione fra i protagonisti all’interno di un fatto che tanto ci interessa, crea l'illusione proprio l'arte stessa del romanzo nell’immaginare quanto potrebbe essere accaduto marginalmente; e poi tanto marginale non deve essere stata la conversazione fra Vittorio Emanuele e Mussolini, i quali saranno ben arrivati a male parole dopo tutti quegli anni condivisi al potere di una nazione mandata in rovina per colpa di entrambi: il Re per la codardia di non essere stato in grado di fermare il Dittatore in tempo, il Duce non riuscendo a far sì che il sovrano anche quella volta confermasse il proprio essere vile. Ma non vi fu nessuno a riportare quel colloquio, e a noi non resta che il desiderio di trasformarci in una mosca sul muro che attraverso la macchina del tempo ritornasse a quel giorno.
Ecco, dunque, la forza della finzione del romanzo storico. Il libro, dunque, che in questa linea vuole studiare, per così dire questa inevitabile e stucchevole, ma pur così vera e sana curiosità, è un volume che mi permetto di consigliare e che vuole dare il proprio contributo in tal senso ed è edito da Laterza, dal titolo Romanzi nella storia, come la letteratura racconta la storia, ed è la raccolta di alcuni contributi di coloro che appaiono essere fra i più noti nomi del parterre degli studiosi di storia i quali, invece, di fare storia soltanto, offrono un’analisi di interessanti volumi di letteratura (uno fra tutti e il più interessante è, tanto per cambiare, quello di Alessandro Barbero su Guerra e pace).
Buona Lettura
Renato Carlo Miradoli