Quel che per Hitler e Mussolini era pace, non lo è per noi, quel che è amore per noi, amore senza distinzioni, non lo è la Chiesa Cattolica, quel che è vita per molti, non lo è per molti altri. Con buona pace di Salvini, Meloni e Chesterton.
“Perché non dovremmo litigare per una parola? A cosa servirebbero le parole se non fossero abbastanza importanti da litigare per esse? Perché si dovrebbe scegliere una parola piuttosto che un'altra se non ci fosse alcuna differenza fra di loro? Se lei chiamasse una donna scimpanzé invece di angelo, non pensa che scoppierebbe una litigata sull’uso di questa parola? Mi dica, se lei non vuole discutere sulle parole, su cosa vorrebbe mai discutere? Ha forse intenzione di trasmettere il significato di quello che mi vuole dire muovendo le orecchie? La Chiesa e le eresie hanno sempre combattuto sulle parole, perché sono le uniche cose per le quali valga la pena battersi.”
Citato nel marzo 2019 al convegno sulla famiglia e pure contemporaneamente da due malcapitati politici italiani arcinoti, un uomo e una donna, Salvini e Meloni principali capi politici del centrodestra italiano, pur ben sapendo di essere assolutamente ignoto a entrambi, nonché suggerito da chi ha loro scritto, o abbozzato, il discorso, Gilbert Keith Chesterton nel suo celebre romanzo La sfera e la croce, 1909, fa dire a uno dei suoi protagonisti quanto avete letto sopra.
La parola, oh la parola…
Va subito detto che questo discorso rimanda al passo evangelico in cui Gesù invita i propri discepoli a parlare chiaro: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno,” (Mt, 5, 37). E non (aggiungo io!): “Nì, nì!”
Per lo scrittore inglese sembrerebbe evidente che cavallo non significhi elefante, ed elefante razzo per la luna. Chi dovesse, infatti, fare la seguente affermazione: “Il mio elefante miagola, fa le fusa e si rifà le unghie sul mio divano nuovo, rovinandomelo,” rischierebbe di ricevere la visita di un’ambulanza del 118 e di essere ricoverato in unità psichiatrica immediatamente. Come non dare torto a chi sostenga il contrario; in fondo, è vero: il bianco è bianco e non è nero, e lo stesso si dica per converso del nero col bianco.
Una delle ragioni per cui una certa parte di cattolici o dogmatici in genere contestano il famigerato romanzo di Eco Il nome della rosa, è proprio in nome di quell’insinuazione che aleggia in tutto il volume sulla relatività (in onore di Eco, chiamiamola semiologica!) delle parole le quali, per citare Roscellino da Compiègne e Guglielmo da Ockham (quest’ultimo l’ispiratore per Eco della figura dell’inesistente Guglielmo da Baskerville), sarebbero solo flatus vocis, emissioni di fiato, cioè, e conseguentemente affermazioni incapaci di descrivere razionalmente la realtà che appunto può essere oggetto del riso e della canzonatura, non da ultimo la realtà incontrovertibile (?) di Dio. Ma andatevi a (ri)leggere il volume di Eco e meditate su questo aspetto ancora una volta.
Siccome chi scrive si trova a vivere su un pianeta completamente diverso (la mappa per raggiungere il quale vi verrà offerta in un’altra occasione, non ora) …siccome appunto mi trovo su un pianeta diverso per sensibilità intellettuale e filosofica, mi permetto di esprimere dei dubbi.
Ecco quali.
È del tutto evidente (o, no?! Boh?) che l’incontrovertibilità del significato espresso da una parola debba valere solo per gli aspetti che riguardano la vita quotidiana e la comunicazione immediata: il gatto e non l’elefante miagola, l’elefante e non il cavallo barrisce, e il politico parla e non fa corrispondere (apparentemente!) le parole ai fatti.
Eh sì, sapete? Sui grandi e altisonanti princìpi apparentemente le cose non stanno così; mi spiego meglio: i princìpi (o, come usa dire ora, i valori) frutto della riflessione filosofica o dell’attività morale dell’uomo, quali l'amore, la solidarietà, la libertà, la pace, e via discorrendo, non possono vantare lo stesso significato univoco delle parole; e a questo punto si sprecano le possibili interpretazioni del medesimo, espresso da una parola.
Prendiamo la parola pace, per esempio.
Se analizziamo i discorsi dei due grandi dittatori del XX secolo, Hitler e Mussolini (o anche Stalin) non troviamo altro che il riferimento alla pace. Essa appare nei discorsi di questi due uomini che non sono certo passati alla storia per non aver fatto la guerra, e pure su larga scala, provocando la morte di oltre 50 milioni di esseri umani, e sembra essere il desiderio, la meta da raggiungere e il frutto della loro politica; e non possiamo affatto negarlo, in quanto, per essi la pace sembrerebbe essere la pace dopo aver conquistato il mondo sottomettendolo, la pace delle Panzerdivisionen di Guderian, la pace, realizzando la quale, nei territori conquistati non vi siano più né ebrei né omosessuali né negri, né malati di mente né handicappati né persone non gradite al loro regime di pace: il tutto garantito da un ordine nazionalsocialista. Essi chiamano pace questo risultato.
Non vi ricorda niente? Nessuna persona di colore, nessun fedele di altre religioni, nessun gay che abiti nel nostro palazzo? Beh, a me sì! A me balzano alla mente i discorsi di molti politici che sono ancora lì a parlare in questi termini di immigrazione, di apertura a culture e fedi diverse, di diritti civili.
Come si vede, la pace, che noi pensiamo come assenza di guerra in una saggia e ostinata collaborazione fra i popoli, non è proprio la stessa cosa di quello che intendevano Hitler e Mussolini, e, quindi, deduciamo che lo stesso principio può essere interpretato in vari modi con buona pace di Chesterton; eppure la parola è sempre quella: pace.
Ritorniamo, dunque, al nostro convegno della famiglia, laddove i politici di cui dicevamo poc’anzi (uno addirittura sbandieratore di vangelo e di rosario contro le unioni omosessuali e a favore della famiglia tradizionale, fondata naturalmente sul matrimonio fra un uomo e una donna!). L’esponente di questo partito, che si rifà a una cultura profondamente cattolica, è apparso in televisione ospite di Barbara D’Urso e con la show-girl ha recitato la giaculatoria: “L’eterno riposo dona loro o Signore,” cui ella ha prontamente risposto: “Risplenda a essi la luce perpetua,” per poi finire in un coro a due: “Riposino in pace, amen.”
Qui, al convegno, come si vede, vi è un chiaro riferimento all’amore coniugale e alla fede cattolica, realtà però viste in una luce un po’ particolare, visto che il nostro politicone va ben oltre l’usuale matrimonio a due (uomo e donna), ma ha all’attivo storie sentimentali che ci inducono a pensare che egli intenda amore fra uomo e donna nell’unità della famiglia come l’uscire dal letto della prima per entrare in quello della seconda e via elencando più letti e più donne. Interessante, no?
Qui sono d’accordo con Chesterton: le parole ci invitano a litigare; e sì, caro Chesterton: infatti le parole non sono evidenti in sé e sono frutto di un’interpretazione, proprio quel loro essere non univoco che a Lei, caro scrittore, piace tanto.
Diamo un altro esempio, ora: l’amore.
Al suddetto convegno vi erano anche due esponenti della gerarchia religiosa ortodossa e cattolica di rito bizantino (non quello, però, che ha detto che il Covid è una punizione per la presenza dei gay nel mondo avendolo, poi, contratto egli stesso): Dmitri Smirnov arciprete ortodosso russo e Ignatius Joseph III Younan patriarca della chiesa cattolica sira; i quali si sono uniti nel maledire coloro che manifestano amore verso un membro del proprio stesso sesso, definendo tale amore istinto animale. Vedete le parole cosa possono fare: per gli omosessuali o i transessuali l'amore è amare un membro del proprio stesso sesso con dedizione e cura e sacrificio; e lo stesso principio è inteso dai custodi dell’ortodossia come puramente istinto carnale tipico delle bestie (per cui ci meritiamo poi il Covid!).
Ma allora le parole non sono univoche e devono essere interpretate: spiace dirlo sgarbatamente ma Chesterton e Gesù si rassegnino un pochino.
“Giusto quello che ho detto?” chiedo basito ora alla mia coscienza.
“Nì,” essa mi risponde e mi lascia ancora più basito di prima.
Buona lettura