A rileggere con attenzione le pagine de Il nome della rosa, laddove Bernardo Gui interroga, minacciandolo di tortura, Remigio da Varagine, non possiamo che trarre delle conclusioni utilissime al fine di capire come stanno le cose anche nella vita e soprattutto nella nostra vita di oggi. Eh sì, perché è la letteratura a volte la più sapiente e capace musa, tale, cioè, da poterci aiutare nella comprensione della natura umana.
Rileggiamo il brano contenuto in Quinto giorno, Nona, e assistiamo come Bernardo, il frate domenicano inquisitore in preda a furore mistico, dica in fondo a Remigio una cosa che spesso un pessimo padre ha detto a un figlio (spero non a chi legge, per la carità) frustandolo con la cinghia dei pantaloni: “Fa più male a me che a te!” Se fossi un padre, detto per inciso, mi vergognerei solo di dire a mio figlio una cosa del genere proprio un attimo prima di punirlo in questo modo, che di umano non ha nulla se non il fatto che neanche una bestia farebbe del male in questo modo alla propria prole.
Il grande Eco ci dice infatti una cosa molto interessante a proposito del metodo usato nel Medioevo durante gli interrogatori degli accusati (che spesso erano anche colpevoli, nei fatti, dei delitti più orrendi, ma questo non c’entra!) e, cioè, che l’interrogatorio venisse, sì, tenuto dal rappresentante ecclesiastico, ma anche che la materiale azione della tortura venisse fatta solo dal braccio secolare, da un soldato, dunque, o dal boia pagato dall’autorità laica perché compisse tale ufficio. Il quale compito era di conseguenza molto utile a carpire dal torturato quanto il casto e candido domenicano (o chi per lui) volesse venire a sapere; ed Eco aggiunge come, spesso, durante i tormenti inflitti dall’aguzzino al soldo delle istituzioni a ciò preposte, il giudice interrogante (oggi si direbbe il magistrato inquirente? Boh…) fosse solito avvicinarsi alla vittima facendogli capire che egli (il torturato) si sarebbe potuto confidare con lui (il carnefice mandante) e a lui dire quello che più premeva al processo e interrompere così quell’inutile pena. Egli (il giudice) appariva dunque come colui che soffriva assieme al condannato, apparendo fin troppo chiaro che le percosse e l’umiliazione facevano male più a lui (sempre il giudice, ovviamente), “costretto” a tale processo, che non al condannato stesso il quale aveva il potere di impedire tutto ciò, o interromperlo, semplicemente confessando.
E così Remigio nella grande scena del processo nella sala capitolare del monastero, restato anonimo nella penna di Umberto Eco e in un lontano 1327, confessa tutto (anche quello che non sa e vorrebbe pur fare o aver fatto), quasi scusandosi di essere un codardo e di non poter certo sostenere una notte simile a quella di tutti coloro che prima di lui erano passati per tal via processuale.
Molto simile appare questa pagina e pure profetica (ripeto la letteratura, sì, che capisce in fondo la natura umana attraverso la fictio letteraria, molto meglio a volte di un trattato di psichiatria noto al dottor Gandolfini promotore del family day e del congresso di questi giorni a Verona), appare simile, dico, a quanto sta avvenendo a Verona durante il cosiddetto convegno sulla famiglia, in cui una adunanza di personaggi della natura più diversa e di origine geografica lontana dalla civile Europa, nonché culturale, processa il mondo moderno e le aggregazioni sociali e la libertà delle donne o delle persone omosessuali, e via elencando tutti i gruppi accusati precedentemente delle più orrende cose.
E ancora si ripete lo schema: chiedere alle autorità civili di compiere un balzo all’indietro nel tempo e di abolire quanto per molti sono guadagni sociale e libertà acquisite quali il sofferto aborto per una donna oppure le unioni civili che garantisco l’uguaglianza alle coppie gay di fronte alla legge, e tutto questo invitando le loro vittime a confidarsi con loro unici a sapere davvero dove sta la vera libertà e dove la felicità più autentica. Se le vittime non vorranno sarà peggio per loro: saranno loro stesse ad aver rifiutato il più genuino gesto d’amore.
Eh sì, perché all’obiezione: “Ma della mia vita decido io e non intendo discutere se non da premesse condivise,” i carnefici accusano l’avversario di chiusura al dialogo e di intolleranza.
Nella pagina del Corriere della Sera di domenica 31 marzo vi è un lungimirante articolo che spiega questo fenomeno da parte di tale Sandro Mangano, omosessuale e inviato dal presidente della Regione Sicilia quale osservatore, il quale dice di non essersi sentito assolutamente discriminato durante il Convegno, avendo forse dimenticato le precedenti affermazioni dei giorni scorsi da parte del ministro ugandese, signora Lucy Akello, che proponeva la pena di morte per gli omosessuali oppure del patriarca ortodosso, Ignatious Yousseff III, che diceva come le donne che abortiscono siano persino cannibali.
“Caro Remigio Mangano, tutto questo può essere interrotto, se vuoi,” disse Bernardo Bannon, “io ho il potere di far sì che questo strazio abbia fine: basta che tu venga qua con noi, basta che tu ammetta di essere un cannibale pervertito.”
Persino Giuseppe Cruciani, il noto giornalista della Zanzara, è andato a dire al Convegno di essere contrario a tutto quanto viene detto là dentro, ed è questo il segno di quanto essi siano sì, loro, per la libertà di parola e di opinione: i veri liberali sono loro! Peccato che tra queste pregevoli opinioni, punti di vista, libertà di espressione ve ne siano diverse contrarie alla libertà della donna, a quella di chi ha un orientamento sessuale diverso cui sarebbe tolto la garanzia di avere eguali diritti matrimoniali perché questo andrebbe a cozzare contro il matrimonio e la famiglia così come vengono intesi irrinunciabilmente dagli organizzatori della kermesse.
Ma perché mai i nazisti a Wannsee non avranno invitato una rappresentanza della comunità ebraica di allora per farla partecipe del progetto di sterminare tutti gli ebrei dai territori conquistati dal Terzo Reich?! Che sciocchi in fondo a non averlo fatto!
Il buon Gandolfini ci dice pure che sua figlia, 35enne, sarebbe persino (tanta grazia!) libera di avere opinioni diverse e quindi di andare all’inferno perché divorziata e convivente con un altro uomo e altri figli, ovviamente sbagliando! Non mi pare che qualcuno tra gli oppositori del convegno abbia mai detto che chi invece vuole sposarsi e avere figli secondo quanto viene detto dal convegno sia in torto! È ben questa la differenza: ma molti fanno finta di non vederla.
Opinione non può essere quella che prevede di togliere agli altri l’uguaglianza e la libertà di decidere per la propria vita. Opinione non può essere quella che giudica immorale o omicida la scelta degli altri. Opinione non può essere quella che toglie e cancella diritti degli altri sulla base di una verità morale o giuridica che si ritiene di avere.
I partecipanti più diversi, inoltre, nei modi più variopinti, citando, cioè, Chesterton due volte (Meloni e Salvini con gaffe aggiunta) e precisando di leggere “meno libri della sinistra, ma quei tre di averli capiti” (Salvini, ma nessuno ci ha creduto), hanno costantemente ripetuto di essere loro i latori di un pensiero dialogante, contro il cosiddetto “pensiero unico” di coloro i quali impedirebbero il dibattito in un convegno simile. L’unico pensiero che si intravvede qui è il pensiero di voler indicare come minaccia chi è diverso dall’idea di famiglia, di società e di verità.
Ma guarda un po’! I grandi esperti di famiglia dicono infatti di non essere disponibili a rinunciare alle proprie premesse che essi giudicano evidenti e naturali, e quindi se qualcuno le rifiuta perché dogmatiche o frutto di una cultura particolare e non ovvia, egli è pure indisponibile al dialogo. Insomma: non sono loro i dogmatici sono gli altri a essere froci o donne isteriche ed egoiste!
Le parole di Bernardo sono quanto mai attuali in questa kermesse di tre giorni e ciò che stupisce maggiormente è come i contributi di questo convegno siano presentati come volti a dare diritti e non a toglierli, a presentarsi come liberali, tacciando gli altri di impedire la libertà di espressione. Stupisce, cioè, che costoro (esattamente come ci fa capire Umberto Eco ne Il nome della rosa) accusino gli altri delle proprie colpe (si veda, ripeto, le donne cannibali e gli omosessuali pervertiti), e cioè di voler impedire la libertà individuale dell’uomo e, in particolare, quella di opinione e di espressione, individuando la corretta interpretazione di tali principi come l’applicazione della loro teoria. Ovvero: sarebbe vera l’interpretazione della libertà che danno loro e sarebbe contro la libertà il principio libertario della società moderna, dove ognuno è libero se è libero da vincoli.
Più modestamente anche chi scrive ricorda questo fenomeno nel proprio romanzo, quando Janus cerca di spiegare al suo padrone Pisone, il quale lo ha liberato qualche pagina prima, di averlo tradito non perché ingrato e infedele, ma perché fedele a un principio di fede che lo obbligava a tradirlo.
Siamo rimasti quattro liberali, come diceva qualcuno, e io non mi sento neanche tanto bene, poiché io che non sono di sinistra devo vedere questi stessi togliere il patrocinio a un premio letterario, il Premio Terzani, disquisendo sul fatto che i libri premiati non siano di una qualità da loro ritenuta tale in quanto “di sinistra”. Curiosa come concezione di libertà di opinione!
Che triste pagina della nostra piccola Italia: rileggiamo ancora una volta, allora, Il nome della rosa, e facciamo tesoro dell’acribia di qualcuno che forse aveva previsto profeticamente il rischio dell’avverarsi di quelle pagine, le quali restano immortali nella storia della cultura mondiale.