Il blog di Renato Carlo Miradoli

Il Nome della Rosa: Jorge da Burgos e il sottosegretario alla cultura Lucia Borgonzoni

 Alla vanteria tutta traballante di chi rivestendo un ruolo istituzionale, quale quello di Sottosegretario al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (mi riferisco a Lucia Borgonzoni), di non leggere un libro da più di tre anni e di aver sfogliato per caso Il castello di Kafka prima ancora, si risponde invero con l'esortazione alla lettura; non che i libri tutti già contengano tutto lo scibile umano ed essi siano l'unico veicolo della cultura medesima, ma neanche il contrario, divenuto in molti pure oggetto di vanto.

Leggiamo, dunque, Il nome della rosa di Umberto Eco e commentiamolo col motto preferito di chi scrive: nonnunquam quaesivi requiem sed non inveni nisi in angulo cum libro. Recensire il volume in oggetto fa tremare la penna nella mano, per la paura che sorprende chi scrive di non essere all'altezza dell’irraggiungibile Eco. Nulla, tuttavia, quanto la lettura di un testo sia esso poesia, narrativa, nonché saggio, via via elencando tutte le forme letterarie della comunicazione scritta, forma l'uomo. Egli è tale, secondo il grande Isocrate in quanto in possesso del λόγος (Logos): e tale intraducibile parola del greco classico è ora la razionalità, ora il discorso, ora la logica: e, dunque, che può dire o fare oppure altresì vantare un politico in un discorso pubblico, in Parlamento, se si vanta di non aver letto?

Questo sembra proprio quanto Guglielmo da Baskerville tenta di dire a Jorge da Burgos ne Il nome della rosa: per il secondo i libri vanno conservati, per il primo divorati! Ed è proprio la voracità di alcuni monaci, curiosi di leggere il secondo volume della poetica di Aristotele che li consuma, essi muoiono felici di aver scelto finalmente di leggere.

Leggere, dunque, non è mezzo, ma scopo: Umberto Eco, nel suo inimitabile capolavoro, parla esplicitamente di una lussuria buona che è ben diversa da quella della carne, ed essa è la lussuria del sapere come unico traguardo possibile per l'uomo quando egli voglia distinguersi dalla bestia. L'inclito autore condanna chi non legge: egli (chi non legge, beninteso!) non solo è ignorante, ma bestia: egli non è altro che povera cosa e meschina, prestata ad altra lussuria, cioè quella del potere; e Jorge da Burgos può essere assimilato a questo tipo umano perché privilegiato all’interno della comunità monastica e vate della conservazione e del potere.

Anche il colpevole, va tuttavia notato, muore mangiando il libro avvelenato e a noi piace pensare che egli vi sia costretto e che di esso provi disgusto e la lussuria (appunto) di distruggerlo ed evacuarlo con tutta calma.

Se, non molti anni fa, essere ignorante era un'onta, oggi sembra un vanto: la libertà di esprimere se stessi (anche se non ne condividiamo le tesi) va rispettata, ma ancora va rispettato (e incoraggiato) il diritto di ricercare: questo stupisce un poco in quanto sarebbe proprio il compito di chi si vanta del suo contrario, appunto come Jorge da Burgos o la Borgonzoni.

Eh, sì! Il vero corrotto moralmente non è il monacello innamorato di Aristotele: bestia ignorante non è Salvatore scarto umano, illetterato e incapace di esprimersi in un linguaggio compiuto; e, ignorante non è già chi ignora: in fondo, nella condizione di non sapere qualcosa ci troviamo un po' tutti. Ignorante è chi si vanta di essere tale e magari rivestendo un ruolo quale quello di sottosegretario alla cultura.

Jorge è, dunque, ignorante, Salvatore non lo è: chi scrive ha letto il volume in questione più di una ventina di volte almeno (riscoprendo di esso, ogni volta, delicate sfumature e angoli remoti), cominciando da adolescente quando, cioè, all'età di 14 anni egli tentava di impratichirsi con le lingue classiche e la cultura: quel libro resta nella vita di chi scrive il baluardo della certezza di non aver desistito a cercare la verità nella cultura contenuta nei libri.

Stupisce e addolora il pensare che chi dovrebbe incoraggiare le giovani menti alla ricerca, se non della verità, almeno alla ricerca fine a se stessa, vanti il contrario di quello che il proprio ruolo richiede.

E questo destino, cui l'uomo è portato per Guglielmo, non è altro che la ripresa di Orwell in 1984 nel suo converso, là dove l’autore inglese dice come, riducendo la parola al minimale di essa, altro non si ottenga che di ridurre il pensiero del parlante. E se è vero che un uomo colto può fingere di essere illetterato, il medesimo illetterato non può fingersi colto.

Buona lettura.

 

 

 

 

 

 

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