Il blog di Renato Carlo Miradoli

Il professor Keating ha torto: l’arte è il punto di incontro tra forma e contenuto

 

“La letteratura è scomparsa” sentenzia Antonio Franchini: o forse essa c’è e nelle case editrici non la trovano più, oppure, ancora, non la cercano nemmeno?

Riflessioni su cosa è arte, letteratura: nate da un’intervista del Corriere della Sera ad Antonio Franchini, autore di vari romanzi di successo e, soprattutto, curatore editoriale, prima per Mondadori e ora per Giunti.

 

 

https://www.corriere.it/cronache/24_giugno_09/antonio-franchini-intervista-7de147dd-4765-48a9-89dd-d375809c2xlk.shtml

Appassionato del Jujutsu, Antonio Franchini è entrato a far parte della cinquina dei finalisti del premio Campiello con il suo Il fuoco che ti porti dentro, edito da Marsilio, come lo sono la maggior parte dei suoi romanzi; e rilascia un'appassionata intervista congiunta ad Aldo Cazzullo e a Roberta Scorranese, apparsa sul Corriere della Sera di domenica 9 giugno 2024.: egli ci rivela il suo pensiero sull’arte come forma letteraria affermando, fra le altre cose, che la «pura letteratura è scomparsa» (così nel titolo dell’articolo).

Ma non è tutto: altrettanto appassionatamente, e forse sull’onda delle perplessità diffuse sulla qualità dei libri finalisti di un noto e storico premio letterario, Franchini ci ricorda come sia (e qui è l’editore che parla, come è giusto che sia), «sempre più difficile»  riconoscere un grande romanzo, quasi si trattasse di un'impresa degna di Ercole e delle sue famose fatiche. Del resto, quale altro compito, mi domando io, dovrebbe avere l’editoria se non quella di scovare talenti, visto che è difficile vendere qualcosa che non hai scovato prima?

Franchini, attraverso un'immagine davvero efficace, si diverte a pensare a Kafka mentre si reca in libreria per presentare Le metamorfosi. E perché Franchini ricorre a un artificio retorico simile? Chi scrive intuisce (o almeno crede di farlo: bisogna vedere cosa ne pensa il decano dell'editoria italiana, come lo ha definito Arturo Ferrari); dicevamo: chi scrive intuisce come Franchini con questa boutade, davvero azzeccata, voglia dire che l'opera d'arte parla da sé (e di sé) senza bisogno di presentarsi. L'opera d'arte, dunque, sarebbe tale in sé, evidente a se stessa per dir così: capace di distinguersi da quanto viene definito con un tecnicismo, il grado zero della comunicazione; quello cioè destinato alla comunicazione fondamentale; per esempio: “Oggi è una bella giornata,” oppure: “Scusi, per cortesia, sa dirmi l'ora?”. Il grado zero si differenzierebbe dalla parola poetica: “La sventurata rispose,” oppure: “Rari nantes in gurgite vasto.

I due ultimi esempi, il primo preso da Alessandro Manzoni nel riferire il dramma di Gertrude che si condanna rispondendo alle avances di Egidio (rinchiusa a forza dal padre in un monastero) e non al telefonino disturbando tutti gli altri viaggiatori; il secondo dall’Eneide di Virgilio, il quale descrive la tragedia dei Troiani fatti naufragare da Giunone vendicativa (e non il resoconto giornalistico, pur drammatico, per informare un lettore di giornale di un naufragio di alcuni poveri infelici che tentano di sbarcare sulle coste italiane).

A bizzeffe potremmo stuzzicare la fantasia di chi legge qui, ma tralasciamo per dedicarci ad altra riflessione e proseguire sul filo del ragionamento.

E, cioè: Franchini, pur così lanciato nell’annunciare la propria tesi, si guarda bene dal dirci come possa esser definita o, meglio, che cosa renda poetica la parola; cosa l'arte arte, e non artigianato, cosa pittura pittura, e non imbrattamento dei muri. Eppure, vi è chi sarebbe pronto a giurare che un vandalismo su un muro appena ristrutturato dai soldi dei poveri condomini, è opera d’arte pittorica e un WhatsApp, apparso sul display del proprio telefono, poesia.

E la questione resta aperta.

Siccome Franchini non lo fa, vorremmo ardire di farlo noi, pur modestamente e con le nostre povere parole, riducendo il campo dell’analisi alla letteratura (lasciando, ad altri esperti di arti figurative, la pittura o la scultura, e via elencando le altre forme cosiddette di arte), essendo essa l’esperienza di studio e di lettura di chi scrive qui (anche a partire dalla propria fatica di scrivere romanzi), casomai a qualcuno venisse la voglia di sfidarmi: «Fallo tu allora!».

Quanto più impressiona è l’osservare con quale incredibile sicurezza, (e che sa di faciloneria e banalità), possiamo sentire da parte di molti, se non di tutti, come un certo volume sia un vero e proprio capolavoro della letteratura, oppure il contrario: e, cioè, un vero obbrobrio che viene dai più (intesi come lettori in numero e critici in qualità) sopravvalutata.

Alla prima categoria, poi, apparterrebbero spesso testi che nessuno ha mai sentito nominare (absit iniuria verbi) e, alla seconda, testi sconosciuti oppure anche grandi opere (almeno ritenute tali per secoli) fra le quali i citati da chi scrive, Manzoni e Virgilio; al punto di suscitare la sorpresa di come sia stato possibile che per anni, se non secoli, i detti lavori fossero considerati capolavori.

Chi di noi non ha sentito dire oppure letto in qualche forum di discussione l’ignoto seducente esperto che afferma: «Non avevo mai letto Joyce e il suo Ulisse, non sono riuscito ad arrivare a metà, che noia! Ma come fa ad essere considerato un capolavoro della letteratura? Io lo trovo noioso».  E tutti a dire: «Bravo! Bene! »

Ecco, purtroppo, (e l’articolo lo conferma), come questo approccio nei comitati di redazione e nelle alte sfere inizi a farsi breccia, e non solo: molti insegnanti non fanno leggere più la letteratura, ma sfoghi penosi di scrittori furibondi e frustrati.

Si dirà: «Il gusto cambia», oppure, «L’arte deve parlare al cuore dell’uomo contemporaneo», e via discorrendo con le più ridicole (per non dire imbarazzanti e stupide) ovvietà.

Sorge il dubbio che il valore di un’opera sia a essa attribuito a partire da un fatto molto banale: il critico di turno valuta positivamente un lavoro (e lo definisce: «letteratura») se esso corrisponde ai contenuti e alle forme che ha in testa lui, trascurando molti aspetti formali e preferendone i contenuti. Ricorriamo a un esempio per esser più chiari: secondo una certa critica, I promessi sposi per alcuni capolavoro della letteratura mondiale, sarebbe un mattone anacronistico e obsoleto,(altro che capolavoro!); e sapete perché mai? Se va bene perché è solo uno sfoggio di retorica inutile (e lo dice Benedetto Croce, niente po’ po’ di meno), per altri l’autore parla di Dio, di Madonne, e di religione a ogni piè sospinto, e non, come invece dovrebbe a loro giudizio, delle drammatiche ingiustizie sociali del sottoproletariato (che manco c’era nel ‘600, ma è la critica marxista a dirlo); ma se va proprio male male, perché è una cosa imposta dalla scuola, e: «Io a scuola mi annoiavo mortalmente».

I sostenitori viscerali (come chi scrive qui, tanto per essere chiari!), a propria volta, del medesimo lavoro di Dom Lisander (per chi non lo sapesse, questo era l’epiteto dato dai Milanesi ad Alessandro Manzoni) per le stesse ragioni ne esaltano grandezza e originalità; vogliamo dire: le stesse ragioni si offrono, per un verso o il suo contrario, a sostenere o condannare il medesimo volume.

E ancora la medesima tiritera banalotta: «Ma che ci vuoi fare: non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace!» affermazione fra le più irritanti che uno possa sentire.

Mah… mi sembra un po’ scarsina come indagine critica: non possiamo come lettori pensanti, specie sempre più in estinzione, avere di meglio? Per citare un manager di mia conoscenza e visto che alla fine l’editore dice di essere un venditore di libri, se tu sei il primo a banalizzare il valore di ciò che vendi, come puoi pretendere che il cliente sia disposto a pagare per averlo, per avere, dico, un pezzo di carta con impresso sopra (o spruzzato in caso di stampa laser) un po’ di inchiostro?

Ed ecco la nostra considerazione che, lontano dall’essere esaustiva, vuole cercare di impostare la questione: l’opera d’arte è tale perché essa è forma e contenuto al contempo, ed è capace di esprimere in genere l’abilità dell’autore di attenersi a stilemi del periodo cui egli appartenga (o anche no, visto il capolavoro de Il nome della Rosa di Umberto Eco, che immagina il suo testo scritto dal monaco del XIII secolo) per esprimere contenuti personali, e che costituiscono il messaggio che egli vuole consegnare alla storia; cioè, è il punto di incontro fra forma e contenuto o, meglio ancora, fra stile e messaggio come l’arcinemico del professor Keating cerca di far passare nel film L’attimo fuggente (Dead Poets’ Society, in lingua originale) in una delle prima scene, annoiando gli studenti (che non capiscono nulla) e contrariando il professor Keating (che ne capisce ancor meno).

https://www.youtube.com/watch?v=spiQu1U3srw

 

Fin dalla prima volta che ebbi l’occasione di vedere il film mi sono portato dentro considerazioni che negli anni ho maturato e che ho adottato, pur modestamente, nei romanzi che ho avuto l’ardire di scrivere. Il lettore di questo mio contributo, sappia che sono insegnante a mia volta: e non voglio sminuire le grandi capacità empatiche di insegnante del protagonista del film, le sue frasi sul fatto che siamo cibo per vermi, che l’arte è parte del nostro essere umani, di non «viver come bruti», per citare Dante. Il mondo non ha bisogno di insegnanti pedanti e noiosi. Ma il professor Keating sbaglia: egli dice che l’arte è la linfa vitale, lo spirito che promana dalla poesia dell’autore: l’ardire vitalistico di esprimere tutto se stessi; al punto di portare uno studente, per esprimersi, al segno di suicidarsi verso la fine del lungometraggio. E il neoromantico foscoliano vital-esistenzialista Keating si guarda bene dal considerare quanto invece facciamo noi.

E cioè: se un eccesso di formalismo ci porta al manierismo con buona pace dell’Adone del Marino, l’eccesso contrario, detto: «Me lo sento dentro», porta a un pitale (sì, avete capito benissimo, ho scritto: pitale) offerto come opera d'arte, o alla Merda d'autore, quando l’artista Piero Manzoni presentò un’opera del tutto (tanto per usare un eufemismo!) originale producendo barattoli numerati fino al numero 90 contenenti le proprie feci. Di cosa vi scandalizzate: possiamo ben dire che se lo sentiva dentro questo capolavoro!

E come sempre va domandato: ma ci sarà una sana via di mezzo? Ed è proprio il diagramma dell'avversario del professor Keating, l’autore citato nel film, il povero professor Pritchard e il suo saggio Understanding Poetry, ad essere la risposta e ad avere la meglio sul «mi sento» ideologico, oppure di quello dell'arte degenerata di stampo hitleriano.

Lo so già: mi si accuserà di storicismo, cioè di considerare arte un qualcosa solo per il fatto che esso è un reperto di un periodo cronologicamente ben inteso e che ci permette di ricostruire il gusto di un’epoca e tale da essere capace di resistere alla corruzione del tempo e delle mode. Molto bene me ne assumo tutta la responsabilità! Ma per la carità, evitiamo di fare annunci programmatici da un lato, e contumelie dall’altro sulla mancanza di «letteratura» ai nostri giorni, anche perché c’è chi si affatica davvero a produrre qualcosa di originale che punti se non a passare alla storia, almeno a consolarci dell’essere nati (e questo è Leopardi, e l’ho rubato a lui!).

Mi sono sempre, dai tempi dell’uscita del film L’attimo fuggente, domandato soprattutto come avrei concluso un mio scritto su questo tema: «Che cosa è mai davvero arte nella scrittura», cioè letteratura, capolavoro di poesia e di forma, universalità del contenuto: ecco, forse è proprio il fatto di non avere fino in fondo uno strumento per definirlo, rende tale la letteratura mondiale e la differenzia dalla mera narrativa editoriale.

Non sappiamo, e non sapremo mai dunque fino in fondo (e qui con buona pace, anche del diagramma del Professor Prytchard, che raggiunge in pace, dunque, anche l’immaginario Professor Keating), cosa sia capolavoro di poesia e letteratura e perché: ma sappiamo cosa non lo sia ed è già molto. E cosa non è letteratura, poesia capolavoro di scrittura pur dandoci le emozioni evocative cui rimanda il professor Keating. Se uno legge con attenzione il trattatello tardo ellenistico,  Περ ψους, Del sublime, del misterioso e contestato autore, chiamato Pseudo-Longino, se ne farà un’idea. Con i dovuti limiti del paradosso, allora o è anche lo scontrino con la lista della spesa, battuta all’asta per migliaia di dollari, dei componenti con i quali William Gates, detto Bill, ha comprato il suo primo computer assemblato.

Per molti le emozioni sono le stesse, il portato nelle vite dell’umanità enorme, lo spirito dei tempi lo stiamo ancora vivendo con l’intelligenza artificiale: ma no, la forma e il contenuto in sé beh… no; direi proprio che non entreranno neanche nei libri di studio, nelle antologie come invece hanno fatto i saggi di Prytchard, nelle pagine che il Professor Keating fa stracciare ai suoi studenti.

Buona lettura (della letteratura e delle liste della spesa).

 

Renato Carlo Miradoli

Nato a Milano, laureato all'Università Cattolica del Sacro Cuore in lettere classiche, è traduttore di diversi libri dall'inglese all'italiano tra i quali Stonehenge il segreto del solstizio di Terence Meaden https://www.amazon.it/Stonehenge-solstizio-Osservatorio-astronomico-affascinante/dp/8834409272  e di poesie del poeta Roald Hoffmann http://www.roaldhoffmann.com/ presentate alla Milanesiana http://temi.provincia.milano.it/Milanesiana/giorno_30giugno.html rassegna culturale della Provincia di Milano.

Dal 2003 ha fondato la sua società di servizi linguistici, formazione, agenzia traduzioni, internazionalizzazione.
E’ docente di inglese e italiano per stranieri presso l’Università Bocconi di Milano, SDA, Master MIMEC, Politecnico di Milano, MIP Master del Politecnico, Istituto Marangoni, presso istituzioni e aziende clienti multinazionali e nazionali.

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